Bach to Beatles
Nel Rinascimento il passaggio di mano della musica fra compositori era uno dei princìpi fondamentali per l’arte della composizione. Far musica su musica d’altri, nella permanente sfida intellettuale della polifonia, corrispondeva a trovare nuove e più ingegnose soluzioni partendo da materiali già elaborati, in una gara d’emulazione inventiva che rifletteva l’ammirazione per i maestri e un omaggio a quanto da essi si era appreso. Parodiare un madrigale o un mottetto di un insigne contrappuntista corrispondeva a riconoscersi debitore nei confronti di quel magistero e farsene continuatore.
Nell’epoca precedente, il fondamento d’ogni invenzione compositiva polifonica era stato in massima prevalenza il canto liturgico, la cui presenza equivaleva a una autorità garante della stessa costruzione contrappuntistica, in grado di certificarne la legittimazione nel contesto a cui era destinato, la musica sacra o l’esercizio intellettuale dell’arte dei suoni.
Il primo musicista che ebbe l’onore, anche se tardivo e postumo, di vedere elette le proprie creazioni a materia di un lavoro di trascrizione, aggiornamento o trasformazione della propria veste originale fu Johann Sebastian Bach. La formidabile sintesi da lui messa in atto fra musica liturgica evangelica e cattolica, concerto, sonata e melodia accompagnata italiana, gusto francese delle galaterien, indirizzo pedagogico e speculazione scientifica delle possibilità combinatorie dei suoni rappresentava il fondamento summatico di tutta la musica moderna. L’autorità imprescindibile del suo lavoro, capace di completare per primo l’esplorazione del nuovo continente tonale e di coniugare la scienza moderna dell’armonia con quella antica e illustre del contrappunto, trovò il suo primo devoto ammiratore e discepolo ideale in Mozart, che trascrisse per quartetto d’archi le Fughe del Wohltemperierte Clavier come uno scolaretto, al fine di condividere la bellezza preziosa di quella musica nella nobile complicità intellettuale della musica da camera. Lo stesso Beethoven s’applicò alla trascrizione in quintetto d’una Fuga a cinque voci e da allora in avanti, nel corso di tutto l’Ottocento e il Novecento, fino ai giorni nostri, la rigenerazione della musica di Bach nelle fogge più diverse e per ogni sorta di strumento non si è più interrotta. Forse nessun altro compositore ha avuto un riconoscimento altrettanto universale col vedersi attualizzato nel turbine d’un carosello crossover che dall’Ave Maria di Gounod arriva a Eminem, passando per Mendelssohn, Liszt, Rachmaninov, Busoni, Elgar, Schönberg, Webern, Stravinskij, Villa-Lobos, Britten, Leopold Stokowski, il Modern Jazz Quartet e gli Swingle Singers.
Nel giro di cinquant’anni dai loro inizi, anche i quattro ragazzi di Liverpool si sono visti omaggiati al rango di paradigma culturale nei modi più impensati. Il loro avvento e la popolarità tanto improvvisa quanto planetaria ha interpretato in modo universale e indiscutibilmente duraturo lo spirito di un’epoca, gli anni Sessanta, nei toni di una rivoluzione linguistica e sociale che, miracolosamente, ha finito per mettere tutti d’accordo. Nel giro di poco più di dieci anni, dal 1957 al 1970, i Beatles erano riusciti a farsi collettori di esperienze e tendenze disseminate nel paesaggio musicale del secondo Novecento, dal pop al rock, dal blues al jazz, dalle radici del canto tradizionale britannico con incursioni nel patrimonio celtico, fino al repertorio storico colto e, infine, al traghettamento nella cultura popolare delle sperimentazioni più aggiornate, con interesse manifesto per la scuola di Darmstadt, Xenakis e soprattutto per le avventure elettroniche di Stockhausen. Quell’omnivora curiosità e la loro felice capacità di intrecciare così tante esperienze linguistiche accosta i Beatles all’eclettismo organizzato nella cifra personalissima e inconfondibile di Bach.
La conclusione è che non sono solo canzonette, non possono essere solo canzonette. Con rare eccezioni, i fenomeni pop passano, come un sortilegio collettivo da cui poi ci si risveglia. I Beatles invece restano e sono stati in grado di mutare la fisionomia stessa del pop e del rock, facendosi però anche oggetto di attrazione fatale per non pochi pontefici della contemporaneità più sofisticata, o almeno per quelli che fra costoro riuscivano a guardare anche fuori dalla finestra della loro cameretta.
Andriessen, Berio, Brouwer, Sciarrino, Takemitsu - per citare solo i primi che mi vengono in mente – si sono applicati a confezionare vesti nuove alle melodie, armonie e ritmi di quelle canzoni entrate nell’immaginario e nella memoria collettiva. Con le loro riscritture hanno posto i Beatles sull’altare delle autorità musicali e li hanno elevati a patrimonio artistico condiviso, più o meno come nel corso dei due secoli precedenti era successo a Johann Sebastian Bach e a pochissimi altri.
La posizione di Alessandro Lucchetti è diversa, assimilabile per certi aspetti a come si sono accostati a Bach sia Liszt che Busoni. Entrambi, ma soprattutto il primo, hanno rinunciato a parafrasare Bach e a sovrapporgli la propria personalità. Il loro lavoro di trascrizione dall’organo (e dal violino solo, nel caso della Ciaccona di Busoni) è mosso da rispetto devozionale nei confronti del pensiero originale, delle sue strutture, delle sue armonie, in casta astinenza dalla tentazione di aggiungere. Coi Beatles, Lucchetti si comporta in modo analogo. Come un incisore fedele alla pittura da riprodurre, trasferisce nel bianco e nero del pianoforte la verità di quella musica, riuscendo a coglierne l’essenza di melodia, armonia, ritmo. Permette così all’ascoltatore di scoprire le affinità di Eleanor Rigby col Concerto italiano, il movimento di siciliana di Penny Lane o come simile a un Preludio del Clavicembalo ben temperato possa suonare I Will. Nell’amorosa fedeltà di Lucchetti, i Beatles si trasformano in Lieder ohne Worte.
Se si allarga l’obiettivo al ben più vasto paesaggio delle espressioni musicali di questi ultimi cinquant’anni, non potremo che concordare sul fatto che l’impronta dei Beatles riguarda un po’ tutti, non solo per l’alluvione di cover e adattamenti, ma per una certa cultura della veste sonora attribuita a testi e linee vocali che ha avuto come stupefacente risultato far cadere qualcuno di quei muri che il Novecento aveva così crudelmente innalzato fra la musica popolare e la musica colta. All’improvviso, la banalità mortificante della musica leggera scopriva che si poteva munire d’un pensiero artistico frutto di invenzione originale, ricerca, curiosità, cesello armonico e strumentazione inconfondibile, in grado di attingere a giacimenti estesi dal barocco alla musica elettronica. Allo stesso modo, le Sophisticated Ladies dello sperimentalismo intellettuale, così schizzinose nel concedere alle masse un accesso ai propri circoli misterici, si scoprivano sorpassate da quattro monelli capaci d’interpretare il proprio tempo e la propria generazione meglio di qualsiasi altro, senza nulla concedere alla trivialità. Quello scossone ha costretto in un cantuccio l’inattaccabile primato della cosiddetta «musica classica» e col tempo ha fatto crollare più d’una torre d’avorio, rivelandone la transeunte presunzione di poter comporre ignorando il postulato che la musica, in quanto linguaggio, ha il dovere di comunicare.
L’accostamento fra Bach e i Beatles, in apparenza irriverente se non addirittura pretestuoso, è allora, a ben vedere, tutt’altro che peregrino. L’invenzione di Alessandro Lucchetti con la complicità d’un suggeritore irresistibile e birichino - Antonio Ballista - ha prodotto un impaginato in guisa di recital pianistico. Ne nasce un dialogo in musica istruttivo, che supera in ellissi i due secoli e mezzo che dividono queste pagine e ci fa scoprire quante cose abbiano in comune.
Negli anni in cui i Beatles scuotevano la musica del Novecento, Bach cominciava a ritrovare il suo suono autentico grazie a coraggiosi pionieri della prassi esecutiva; simultaneamente diventava oggetto del desiderio della musica elettronica, dei primi esperimenti al computer (Pietro Grossi) o di geniali traduzioni di grazia leggiadrissima come quella degli Swingle Singers, col loro tocco di vocalità e ritmica jazz. Già nel 1965 Joshua Rifkin, uno specialista barocco dall’incontenibile curiosità, sottoponeva i Beatles a un procedimento di straniamento stilistico avventuroso e spassosissimo, col suo album The Baroque Beatles Book; l’anno successivo Louis Andriessen trasformava Ticket to Ride in un’aria haendeliana per la travolgente personalità di Cathy Berberian.
Chissà se quell’anno passato nelle cantine di Sankt Pauli ad Amburgo fra il 1960 e il 1961 non abbia portato ai Beatles qualche esperienza d’ascolto con la tradizione di Bach tedesca. È invece certo che George Martin, il personaggio che più d’ogni altro ebbe un ruolo di guida musicale per i Fab Four, li pose regolarmente in dialogo con Bach, come ineludibile pietra di paragone e sorgente inesauribile di ispirazione. Lo stesso Martin era autore di orchestrazioni di pagine bachiane (c’è anche un CD di suoi lavori, Beatles to Bond to Bach) ed è con ogni probabilità il suggeritore di soluzioni che integrano Bach nell’ordito compositivo dei Beatles.
In Michelle il fondamento è l’illustre basso cromatico discendente che la tradizione barocca ha identificato col «Lamento», lo stesso che presiede all’armonia della Ciaccona in re minore dalla Partita n. 2, uno dei più vertiginosi esempi di metamorfosi sonora della storia.
Blackbird, una delle canzoni più toccanti dei Beatles anche per il suo legame emotivo con l’uccisione di Martin Luther King, discende dichiaratamente dal materiale della Bourrée della Suite in mi minore BWV 996:
L’ispirazione originale viene da un ben noto pezzo di Bach di cui ignoravo il nome ma che io e George avevamo imparato in tenera età. Mi aveva intrigato una particolare relazione armonica fra la melodia e la linea del basso e che è entrata nella struttura della canzone. Bach è stato sempre uno dei miei compositori preferiti; sentivamo di avere tanto in comune con lui. Per una qualche ragione pensavamo che la sua musica fosse tanto simile alla nostra e ci attaccammo a lui molto velocemente.
Blackbird, una delle canzoni più toccanti dei Beatles anche per il suo legame emotivo con l’uccisione di Martin Luther King, discende dichiaratamente dal materiale della Bourrée della Suite in mi minore BWV 996:
Prima di Yesterday, del 1965, mai nessuno aveva pensato di inserire un quartetto d’archi in una canzone. Fu George Martin a suggerire questa soluzione, che rese quella melodia inconfondibile, dicendo che quella «sarebbe stata la maniera in cui Bach l’avrebbe realizzata». A conti fatti, quell’armonia a quattro parti perfettamente omogenee conferisce al pezzo l’aura di un abbraccio comunitario che è propria del corale, nella sua spoglia verità di preghiera per tutti. La musica di Bach, anche al di fuori dell’uso devozionale o liturgico, nasconde quella verità del corale come un’anima profonda, più o meno manifesta. La grandiosa Ciaccona è uno di questi casi. Secondo studi abbastanza recenti, essa nasconde nelle sue trasfigurazioni le citazioni di almeno cinque corali. Che la Ciaccona trascenda il suo genere strumentale di appartenenza è eloquente a chiunque vi si immerga e si lasci trasportare nel suo itinerario spirituale. Quando il percorso delle variazioni, nella parte centrale, abbandona il re minore e si apre al re maggiore il conforto di una consolazione che si schiude alla trascendenza è innegabile, e infatti proprio qui Bach ha collocato la citazione del Kirchenlied natalizio Vom Himmel hoch, da komm’ ich her («Io vengo dall’alto dei cieli»), una «canzoncina infantile» («Ein Kinderlied» lo definisce il suo creatore, Martin Lutero).
Forse una delle ragioni che accostano i Beatles a Bach risiede proprio qui, nell’aver saputo farsi interpreti con la propria arte di uno spirito di comunità, mettendo il proprio ingegno al servizio di una bellezza disponibile per tutti, sia che fossero i fedeli delle chiese di Weimar o Lipsia o le maree di giovani (e di meno giovani) che potevano identificarsi nei quattro ragazzi di Liverpool.
Ascoltando l’Aria «Schafe können sicher weiden» dalla prima Cantata profana composta da Bach, Was mir behagt ist nur die muntre Jagd BWV 208, tante volte trascritta nel corso di tre secoli - è del 1713 – e tenerissimamente realizzata sulla tastiera da Dinu Lipatti, si ha l’impressione che quella dolcezza di melodia incorniciata dalle carezze di due flauti dolci sia qualcosa di nostro, sottratto alla sua collocazione cronologica, proprio come accade con Yesterday, che a dispetto del suo titolo è fuori dal tempo, non ieri né oggi, ma sempre.
La soluzione quartettistica fu poi raddoppiata per Eleanor Rigby, la canzone del riscatto d’ogni solitudine, e diventò un ottetto d’archi, prendendo di conseguenza una foggia di concerto barocco. E nelle deliziose traduzioni di Luciano Berio le canzoni dei Beatles non fecero fatica a ritornare al loro padre spirituale, veicolate dalla nuova veste di cantata settecentesca certificata dal flauto e dal clavicembalo, ancora una volta per la gloria di Cathy Berberian.
«Chiunque vive la gioia della musica ama Bach», disse una volta Leonard Bernstein, e questo vale anche per i Beatles.
Alberto Batisti